TweetL'opera (un olio su tela di cm 130,4x162,5 del 1933) fa parte di una serie di diciotto dipinti realizzati partendo da illustrazioni da parti meccaniche oppure d'oggetti d'uso comune, ritagliate da cataloghi e giornali. I collages così ottenuti servono a Mirò soltanto per la fase progettuale dei suoi dipinti, come lo erano state in molte occasioni i suoi schizzi nei taccuini.
Scelse oggetti meccanici e tecnologici per tentare una nuova sfida con se stesso: snaturarne la natura tecnica. A tutti gli effetti pur muovendo queste sue creazioni da figure facenti parte integrante della realtà, queste ultime non sono più identificabili nel risultato finale. Parti di macchie e utensili si mascherano divenendo danzanti forme colorate che campeggiano sugli sfondi vivaci dei dipinti. Il gioco ritmico è mantenuto dal reciproco subordinarsi delle forme e dalle linee che le collegano o le completano.
Incontentabile sperimentatore, Mirò attraversa la ricerca di una pittura ancor più ideata e costruita, cerca di arginare l'eccessiva spontaneità maturata nella fase antipittorica che precede queste opere. Il tentativo era quello di condurre la sua arte su una via più concettuale, liberandola dal suo costante debito con l'esperienza visiva. Evidentemente l'artista è alla ricerca di un punto di equilibrio tra il tentativo di svincolare la sua pittura dal sospetto di facilità, che lo rese spesso incompreso e poco amato, e quello di arginare la propria creatività nella ripresa di controllo che forniscono immagini maggiormente costruite.